Roger Waters. Se fossi stato Dio.

Finalmente è successo. Sono andato ad ammirare, contemplare, onorare e rendere grazie alla discesa in terra di Roger Waters. In una delle quattro date previste e concesse ai fedeli, all’Unipol Arena di Casalecchio. Quest’estate tra l’altro sarà di nuovo in Italia, a Lucca e a Roma. Siateci.

Estasi ed incredulità all’ingresso, frastornato ed emozionato come in prima elementare, difficile anche capire in che stato presentarsi innanzi al sommo, l’alterazione necessaria al raggiungimento della verità, la vicinanza fisica, quella empatica.

I miei recettori sono pronti, lo sballo è adeguato, permette concentrazione e perdizione. Ho vicino a me il team migliore per partire. Si va.

L’inizio è da copione. Speak To Me e Breathe trascinano noi comuni mortali direttamente sul piano emotivo in cui Roger tesserà la sua legge, il primo brivido non si dimentica, mi tremavano le gambe.

Si passa a One Of These Days. Da qui, una volta traghettati nel modo floydiano, si comincia a fare sul serio, ed è qui che il basso di Waters inizia a farsi strada sul palco, abitato da numerosi musicisti e coriste.

Sveglie e orologi. Parte Time, un classicone irrinunciabile, forse suonato troppo identicamente a sé stesso ma che, essendo tra i pezzi più belli e ascoltati dell’album, non può che incrementare la gasatura della mia mente. Predisposta e consenziente.

In The Great Gig In The Sky, uno dei brani che più mi tocca e che ascolto sempre con cautela e parsimonia per non sminuirne l’unicità situazionale (che frasona!), la voce straziante di Clare Torry è sostituita dalle due coriste, travestite da Raffaella Carrà, che non fanno male, ma non ricostituiscono il pathos originale.

Seguono la fantastica Welcome To Machine e il trittico dell’ultimo album. Il quale apprezzo.

Deja Vu in particolare mi piace molto, la sento proprio canzone watersiana, dolce e struggente, eleva l’eletto a divinità. The Last Refugee incarna molto le tematiche che emergono dalla critica alle politiche di accoglimento, lo spessore dell’artista è sempre stato ampio, le sue battaglie sociali, a volte portate avanti con ferocia e cinismo, sono gli ultimi bagliori di una generazione di miti, artisti, semidei, che non sacrifica i propri moti interiori per il successo. Picture That mi piace meno, tuttavia l’aver concesso almeno parte dell’ultimo lavoro era auspicabile.

Si chiude la prima parte con altri pezzi importanti, che sotto sotto probabilmente Roger si sarebbe anche risparmiato, perché mi hanno dato l’idea di doversi fare per forza. Comunque, tremore alle gambe è stato: Wish You Were Here immortale; le successive parti di Another Brick In The Wall entusiasmanti. Il coro dei bambini dell’Antoniano che marciano, il video del muro, i giochi di luce, tutto ha concorso all’incantesimo.

Poi pausa. Pausa?! Birrone.

Il concerto riprende e tocca qui il punto più alto.

Le perle di Animals, Dogs e Pigs (Three Different Ones), mi mandano in stato catatonico, non riesco a contenere né a comprendere le emozioni, troppo nascoste nel mio più profondo io. Durante questi orgasmi psichedelici succede di tutto. La coreografia del palco si trasforma, allungandosi e ricreando una sorta di fabbrica, chiaramente la copertina del relativo album sacro, composta di teloni che proiettano invettive, video, fotomontaggi politici, l’anima grigia del sommo Roger. E poi il maiale, questo vola e soverchia i cellulari accesi di noi pover uomini. Oltre questo la teatralità della band che a un certo punto, col solito tappeto ipnotico di sottofondo, si munisce di maschere suine e comincia a bere champagne, e ridere, e sbeffeggiare quel popolino che i potenti della Terra, pianeta lontano da quello di Roger, continuano a vessare. Quanta materia grigia. Quanta epica. Irripetibile.

Tanto che si arriva a Money, singolo commerciale, sebbene anch’esso di forte accusa sociale, che neanche rimango colpito, tale è la botta neurologica che la mezz’ora di Animals ha scatenato.

Il tempo di riprendermi e sento il suono felpato del sax introdurre quella Us And Them che dà il titolo al tour. Cazzo si risprofonda nell’abisso.

È la volta di un altro brano estratto dall’album solista (Is This the Life We Really Want?), Smell The Roses. Mi piace quando Waters interpreta i suoi ultimi lavori nei quali, come in questo caso, pur mantenendo lo stile inconfondibile di sempre, si evolve e personalizza, nei temi e nei suoni, la sua impronta artistica e scenica.

Pazzia e autodistruzione si sintetizzano nel gran finale, prima Brain Damage, tra le mie preferite, in cui si ha un’escalation musicale e visiva, infine la grandiosa Eclipse. Qua partono i lacrimoni, la coreografia si supera, una sfera sta attraversando il prisma sopra il palco, il contatto genera uno spettro di luce che inonda la platea. Mi sento levitare, sensazioni che il mio fisico umanoide non sa gestire, è un sogno? Possibile tale sensazione di grazia?

Non credo di trovarmi all’Unipol in quel momento, la mia anima è ormai vicina a quella del sommo, mi concede di percepire solo minimamente il suo verbo. Gioia e tripudio. Fino a scemare. Tornato sul parterre, frastornato dalla scossa sensitiva.

Waters chiude con Mother e Confortably Numb. Avete capito bene. Non so più chi sono, non riesco a contenere tanta estasi. Al verso “Mother should I trust the government?” compare la scritta “COL CAZZO” e il pubblico apprezza, commosso ma guerrigliero.

Lo spettacolo ha fine.

Mi ci vorranno diversi minuti per tornare a parlare. Almeno con frasi di senso compiuto. Mentre vi scrivo mi sento ancora un essere superiore. Abbiate fede peccatori, presto sarà il vostro turno.

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Autore
Leonardo

Trenta da poco.
Cresce nel verdissimo paesino marchigiano, poi il trapianto a Bologna, tra studi e lavoro. Diventa la città su misura, dove convivono arte e musica, sballo e balotta, e la possibilità di finire sulla strada di RFA.

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