OSTERIE DENTRO PORTA

Credo nell’odore che fa questa città di notte. Come di panni appena ritirati dal terrazzo, ancora un po’ bagnati, mentre tra gli scalini sdentati e le tag sputate sui portici mi chiedi come ci siamo finiti qui io e te, due rette parallele che si sono schiantate nei corridoi, quando son vuoti, del labas, a porte chiuse, in un’altra dimensione.


Credo che siamo di ferro, si, come i ponti nella frusta iconografica collettiva. E credo che il ferro arrugginisca e finalmente prenda quelle irregolarità sui polsi dove ti puoi tuffare coi polpastrelli quando hanno sete del profilo bagnato del muschio.


Credo ai bar, quelli bui col fumo a mezz’asta quando tirano giù le serrande.
Credo al bicchiere pieno e al bancone vischioso del vino versato di fuori.
Credo a quella luce fioca quando fuori son le quattro del mattino ma qui dentro fammi un whisky e un bicchiere d’acqua fredda che non ho il coraggio di andare a dormire.


Credo a quando vuotare il tumbler è come ascoltare l’ultimo rintocco della mezzanotte. Credo di aver scritto più canzoni sui bicchieri sbrecciati dai secchiai delle osterie fuori porta sul mio appennino che sull’amore che ho perso due volte.


Credo che un cicchetto poi un altro e infine l’ultimo assaporato con la calma densa del condannato siano l’unica breccia nel tempo che so aprire.


Non mi portare a casa stanotte se finisce tutto questo. Anche se guido io don’t drive me home tonight.


Che dalle vertigini di questo sgabello su cui poggiano i miei passi incerti le infiltrazioni sul soffitto io non saprei se sono macchie nell’intonaco o occhi di donna che ti seguono per tutta la superficie calpestabile del locale.


Non mi portare a casa questa sera che guarda francamente io vorrei questa notte a bere vino e riempirci i bronchi di petrolio e cellulosa non finisse mai, appoggiati a un muro tipo cinque anni fa col cappuccio della felpa tirato su come poi così davvero fossimo supereroi.


Credo ai baristi a cui dici lavoro stanotte, credo ai baristi che l’ultimo giro non te lo mettono in conto perché sanno cosa vuol dire dover tirare le sei.


Credo ai baristi come a un cero acceso. Alle loro bugie senape come l’odore del catrame che ti resta sui calli tra le dita dopo che hai buttato la cicca agonizzante tra i pandini metallizzati, sono sempre grigi poi, in divieto di sosta davanti al locale.


Credo ai baristi in piedi, appoggiati alle spine, che tengono il segno in un libro con le dita bagnate e sgualciscono le pagine sottili.


Credo ai baristi come a un prete, che senza esser blasfemi due dita di tanqueray il venerdì notte ti salvano come un cristo in croce. Perdonami perché ho creduto in percentuali su millilitri di sangue per accorciare la notte da qui al mattino ma poi domani é un altro giorno e aspetterò la notte ancora per *riscrivere il mio libro dalla prima riga*tanto me l’hai promesso tu che la vita va presa dalla mezza giornata in giù lo sai che mi hai tirato fuori dall’abisso quella notte al telefono.


Credo agli spigoli euclidei di chi sa dirmi, quel braccialetto lì è ora che lo togli e credo alle mie dita di ragno che lo slacciano senza obiettare.


Credo ai titolari di partita iva di periferia che si tirano su le maniche della camicia e svitano il tappo della stilografica come se fosse quello dell’oban.


Credo agli uomini che senza neanche troppo fiato da sprecare sibilano tu fai il tuo lavoro che io faccio il mio.
Credo che da un pezzo nessuno mi strappava le redini ispessite dai palmi e mi diceva, sei congedato soldato, piuttosto vai a dormire va’ là che qua ci penso io e tu stanne fuori.


Perché vedi credo che nessun mila “dove sei stata tutta questa vita” valga un tustannefuori.
Credo che neanche un tiamo squarciato in piazza grande valga un polveroso tustannefuori mentre ripeschi dalla tasca dell’eskimo il citypass sgualcito.


Credo invece anche alle donne tossiche che lororestanodentro. Alle sirene che ti strappano le catene dal ponte col profumo fragoroso dei tuoni a fine agosto, disegnate con china compasso e black mamba come sono, che tanto poi è sempre colpa tua che avevi tre lavori e non le facevi mancare niente ma non eri abbastanza o forse eri troppo e se scoprono che ‘sti pezzi son tuoi sofocle può andare a pulire i vetri al semaforo di via zanardi davanti alla farmacia.

Credo a questa città, cogli angoli marci e la circolare notturna.
Come se bologna uscisse da uno di quei mille libri che ci scrivono sopra, di bagni dell’accademia graffittati e sigarette spente, e io mi chiedo che cazzo di magia ci sarà mai tra questi tombini di città e le strade nere però sai che quando sono con te bologna è bella quasi quanto certe notti a berlino.
Certe volte credo a santa lucia, al portico dei servi per Natale, certe volte ho creduto che Bologna fosse tutta mia.

Credo che per vedere Bologna cosi quando dentro c’hai baghdad coi balconi sventrati e le macerie ancora fumanti c’hai bisogno di un aiutino oltre i sessanta gradi.
Credo di aver bevuto per sentirmi ancora un po’ di rumore sotto al polso.
Però so quanto e so come e mi faccio il segno della croce.

E non credo però spero anche davvero che non smetteremo mai di guardarci cosi. Che il primo mese son buoni tutti ma dopo lo sai meglio di me che bollette affitti noia e assicurazioni della macchina spengono con più zelo di un uni 45.
Io spero di non essere un tuo viandante stanco.


Io credo fermamente credo ai baristi ruvidi di questa città, ai canovacci troppo secchi passati stanchi sul bancone come una lingua annoiata tra le labbra screpolate sul ventuno una mattina di gennaio, credo ai tuoi tatuaggi sulle dita e a questa città che ha già fatto le squadre, gatti di casa e randagi del crepuscolo.
Io credo fermamente credo che questa roba qui che sento tra le costole sia solo nelle favole e credo, con ferma mente, credo, che bologna certe notti sappia cantare come le sirene.

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sider.ale, all'anagrafe Tormento Siderale, scappa dall'insicurezza terminologica di una formazione universitaria legittimamente conseguita come interprete per rifugiarsi tra le salde braccia calde in calcestruzzo dell'ingegneria civile e delle sue fatture.

Una vita fatta di poco, guardia bassa e pugni in faccia, con tre luminosissimi fari nella notte: la boxe thailandese, il rap e le parole sbavate di una bic blu su un foglio di carta stropicciato.

Accompagnano le notti di tormenta fuori dal porto le melodie lontane dell'ex Germania dell'Est che, ancora dopo decenni e tanta pioggia di traverso, non le si smacchia di dosso.

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