Gaming e Gambling – Dove sta il confine?

di Martina Rangoni, psicologa e conduttrice di gruppi GAP, e Chiara Pantaleo, educatrice e operatrice di sportello

Il mondo della tecnologia, così come quello di internet, è in continua evoluzione. Tutto ciò che ci circonda è connesso da una rete invisibile che ci mette in relazione attraverso software, applicazioni e “strumenti digitali”. Siamo infatti passati da abitare luoghi fisici a luoghi virtuali, come i social network ed altre community online attraverso la diffusione di smartphone, tablet e lo sviluppo irrefrenabile di Internet. In questo scenario rivoluzionario, anche il gioco è cambiato… l’arrivo delle tecnologie digitali ha portato ad un nuovo modo di giocare: il videogioco. Probabilmente, infatti, uno dei settori maggiormente investiti da questa “rivoluzione digitale” è proprio quello dei videogiochi, che ha visto la nascita di nuove e importanti innovazioni, basta pensare alla diffusione del gioco mobile, per cui non è più strettamente necessario spostarsi per raggiungere il “gioco”, ma è il gioco che si presenta direttamente a noi, in qualsiasi momento della giornata.

In quanti utilizziamo i nostri dispositivi per scaricare videogiochi e giocarci, ogni volta che ne abbiamo voglia? Probabilmente tanti. Infatti il mercato dei videogiochi rappresenta il settore dell’intrattenimento digitale con più fatturato, superando quelli di musica, cinema e streaming online messi insieme!

I videogiochi dell’ultimo decennio si stanno spostando sempre più all’interno di piattaforme web come il gaming online, i cloud game e i portali di giochi multiplayer online in tempo reale, tanto che le consolle (PlayStation, Xbox, Nintendo…) iniziano ad avere sempre più un ruolo marginale. Il futuro del gaming è: online, mobile e sempre più social!

Ma cos’è il gaming online o cloud gaming? Intendiamo tutti i videogiochi (per smartphone, pc, tablet, console etc.) che sono fruibili attraverso una semplice connessione internet. Oggi inoltre non abbiamo, necessariamente, bisogno di scaricare o acquistare un gioco fisicamente, questo perché molti titoli sono disponibili sul cloud, accessibili quindi direttamente tramite rete e pagando un abbonamento molto simile a quello di altri servizi (come Netflix).

Nonostante la pervasività dei videogiochi nella cultura contemporanea, non ne sentiamo parlare nei massmedia; eppure sappiamo che questi diventano sempre più accessibili, più attraenti e diversificati, più immersivi e/o coinvolgenti, infatti l’età dei fruitori si è abbassata nel tempo e persino i giovanissimi si immergono nel favoloso mondo online e del gaming.

I videogiochi infatti sono, o dovrebbero essere, dei passatempi con lo scopo di divertire e fare stare bene, dove sperimentarsi, apprendere ed entrare in relazione con l’altro. Lo ricordiamo sempre, durante gli interventi di sensibilizzazione e prevenzione sulle dipendenze da gaming e gioco d’azzardo, ai giovani studenti che incontriamo nelle scuole.

Da operatrici in prima linea per la prevenzione e il contrasto al gaming e gambling patologico, avvertiamo il bisogno di creare maggiori spazi di confronto e circolarità così da stimolare più consapevolezza ed auto-osservazione rispetto a come ci relazioniamo con gli “oggetti” che ci circondano. Anche perché le innovazioni tecnologiche hanno inevitabilmente investito pure il gioco d’azzardo, il quale si è adeguato alla diversificata domanda degli utenti insinuandosi sempre di più all’interno della nostra quotidianità, anche tra giochi considerati “innocui” (come Candycrush) ai quali siamo esposti tutti quanti, a prescindere dall’età.

Esistono infatti diversi elementi che richiamano il gaming al gioco d’azzardo: microtransazioni, loot boxes e il meccanismo della ricompensa che stimola l’area del piacere sono tra gli aspetti più evidenti che accomunano entrambi. Le microtransazioni richiedono, solitamente, una piccola somma di denaro reale la quale permette di effettuare acquisti, solitamente frequenti, all’interno del gioco (ad esempio acquistare ulteriori vite/monete di gioco per accedere ad un altro livello). Il problema delle microtransazioni appare più grave e controverso quando queste spese servono ad acquistare le cosiddette “loot boxes” (a volte definite come casse premio, casse di skin, etc.). Premettendo che queste possono essere ottenute anche al raggiungimento di determinati traguardi all’interno del gioco, oltre che acquistate.

Queste “casse”contengono oggetti di gioco virtuali e del tutto casuali, spesso comuni dal valore prettamente estetico (come ad esempio vestiti, equipaggiamento per il personaggio/avatar di gioco), altre volte rari da influenzare in maniera significativa l’esperienza di gioco aumentando, ad esempio, il potere del personaggio/avatar (armi o skills più potenti da utilizzare all’interno del gioco). Quindi i video-giocatori sono stimolati  ad acquistare questi forzieri premio per sperare che all’interno ci siano oggetti rari o introvabili che possano aiutarli a migliorare l’esperienza di gioco ed andare avanti. Peccato però che, pur acquistando le lootboxes, non si ha la possibilità di sapere in anticipo il contenuto o il valore di queste ricompense e il rischio è quello di continuare ad utilizzare denaro per provare a raggiungere il premio desiderato.

Come nel gambling (gioco d’azzardo) dove la persona continua a giocare compulsivamente stimolata dalla possibile vincita di denaro. Anche nel Gaming, quindi, si può attivare un meccanismo del circuito del piacere regolato dalla dopamina, quello appunto della ricompensa. Alcuni giochi infatti sono strutturati secondo un sistema di piccole e intermittenti ricompense, stimolando costantemente la persona a perpetrare l’attività di gioco; programmati per aumentare il livello di assorbimento nel gioco, sfruttando meccanismi psicologici che stimolano neurotrasmettitori come la dopamina e adrenalina. E inoltre, più l’arrivo delle piccole ricompense è casuale, più il rilascio di dopamina è elevato! Questo dato accorcia sempre di più la distanza tra il gaming e il gioco d’azzardo e ne aumenta il rischio di creare dipendenza.

Ma quindi dove sta il confine?

Quando ci rechiamo nelle scuole chiediamo sempre agli alunni e alunne che tipo di relazione hanno con i giochi, alcuni rispondono di avere dei limiti stabiliti dai genitori, altri di passarci diverso tempo dimenticando anche di fare altro. Riceviamo tante risposte differenti, ma sicuramente emerge la scarsa consapevolezza di come funzionano e vengono progettati, come ricaviamo beneficio o malessere. Inoltre anche da parte degli adulti di riferimento c’è poca curiosità e condivisione nel capire cosa attrae o meno i/le figli/e del gaming.

Se chiediamo ai ragazzi cosa li colpisce di un videogioco, probabilmente risponderanno qualcosa di simile: la storia, che connette tra loro gli eventi, l’interattività, che permette di fare delle scelte, il protagonista, che permette di identificarsi, il senso di sfida, che spinge a continuare.

Ma perché giochiamo? Probabilmente la risposta si può trovare pensando al fatto che il gioco offre una via per assolvere importanti compiti evolutivi, soprattutto in adolescenza, come la comprensione dell’identità, sperimentando mondi possibili, l’autorealizzazione, esprimendo il proprio potenziale, il senso di affiliazione, entrando in contatto con un mondo sociale complementare/integrativo a quello che ci circonda. Pertanto, il videogioco non è da demonizzare in assoluto. Occorre però fare attenzione, in quanto da passatempo o divertimento il gioco può arrivare a definire la nostra identità in modo totalizzante. E la spinta commerciale sfrutta questa tendenza, mirando a rendere il gioco un’esperienza esistenziale. È necessaria quindi molta cautela, quando si naviga nelle acque di questo oceano così vasto, e rendere soprattutto i più giovani consapevoli che il mondo del gaming porta con sé alcune idee “distorte” sulle motivazioni per continuare a rimanere assorbiti nel gioco. Per esempio, non è infrequente che si giochi per ottenere status, potere o visibilità, che si arrivi a pensare che la vita online è migliore di quella reale, che giocando si possano evitare i problemi, che giocare aiuti a sfogare la rabbia.

Per tutte le caratteristiche che abbiamo tentato di descrivere, il giocare può assumere delle forme assimilabili a quelle di una vera e propria dipendenza. Quando non si hanno alternative al gioco per raggiungere i compiti evolutivi che abbiamo citato, quando non si ha la possibilità di sperimentare altri mondi sociali, di sperimentare esperienze ottimali, di entrare in contatto con altri significativi, questo può portare a passare tutta la propria giornata giocando, trasformando il gioco da un’attività ricreativa ad un’attività pervasiva, se non talvolta l’unica alternativa possibile.

Quando l’uso massiccio dei videogiochi crea nuovi schemi che collegano il gioco al sistema di ricompensa, agendo sui circuiti neuronali deputati alla ricerca del piacere, esso è in grado di generare fenomeni di astinenza, portando alla presenza di recidive ed alla difficoltà di sospendere il comportamento di abuso, arrivando persino a modulare il tono dell’umore.

L’interazione tra diversi fattori ha come risultato lo sviluppo di una relazione di abuso verso la tecnologia. Questi fattori sono: 1. Feedback positivi, irresistibili e imprevedibili (legame con la dopamina); 2. Forti connessioni sociali; 3. Tensioni che esigono soluzioni; 4. Obiettivi interessanti appena fuori dalla portata; 5. Percezione di compiere un progresso ed un miglioramento incrementali.

Quindi, basta creare delle esperienze tecnologiche in grado di attivare queste 5 componenti…e il “gioco” è fatto! E questo il mercato dei videogiochi lo sa bene. L’O.M.S. ha recentemente aggiornato la International Classification of Diseases (ICD-11) inserendo al suo interno per la prima volta nella storia il gaming disorder, anche offline, considerato come un disturbo comportamentale con un alto rischio di causare dipendenza. Il cosiddetto gaming disorder è elencato subito dopo il gambling disorder, ossia il disturbo da gioco d’azzardo.

Entrambi i disturbi sono descritti nel ICD-11 praticamente allo stesso modo: con la semplice elusione delle consonanti BL troviamo infatti descritto lo stesso quadro sintomatologico, che comprende sintomi tipici delle dipende patologiche come astinenza, tolleranza, incapacità di ridurre il gioco, rinuncia ad altre attività, menzogna, che diventano talmente pervasive da compromettere diverse aree della vita della persona.

Ecco che appare sempre più evidente quanto avevamo anticipato, e cioè che due attività apparentemente molto diverse come gaming e gioco d’azzardo in realtà si intrecciano e si sovrappongono, condividendo molti più aspetti di quello che si potrebbe pensare.

Quindi, in conclusione, potremmo chiederci che cosa possiamo fare per scongiurare il rischio di queste derive. La prima risposta che ci siamo dati, ma che continuiamo a cercare ogni giorno negli sguardi e nelle parole dei ragazzi che incontriamo nelle scuole, ascoltando le loro esperienze ed il loro punto di vista, che suscitano sempre in noi grande interesse, è quella di partire proprio da loro: dai ragazzi.

Andare nelle scuole a parlare di gaming, quindi, non per demonizzare l’utilizzo delle tecnologie e dei videogiochi, ma per renderli consapevoli delle innegabili opportunità che offrono, ma anche dei rischi che si celano dietro di esse; per renderli sensibili, attenti e ricettivi nel cogliere i campanelli d’allarme che indicano che potrebbe esserci qualcosa che non va; per invitarli a parlarne con gli adulti di riferimento; ed in ultimo, ma non per importanza, per stimolarli ad ascoltarsi, a tenere traccia di loro stessi, chiedendosi sempre se quello che stanno facendo li faccia stare bene, oppure no.

La vera rivoluzione parte dall’educazione alla consapevolezza, perché solo con essa si può essere davvero liberi di fare le proprie scelte.

Autore
Donato

Di lui si sa poco.
Dicono si aggiri per gli studi di RFA dal lontano 2009, e che sia possibile ancora oggi vederlo aggirarsi sui palchi durante gli eventi live. Qualcuno giura addirittura di averlo sentito parlare ad un microfono o di averlo visto mentre intervistava qualche torvo personaggio.
Noi sappiamo solo che si chiama Donato, e che a volte gli piace usare il pluralis maiestatis per parlare di se.

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